La prima metà del secolo XVII era stato per il territorio del Ducato di Milano, un trentennale periodo di campagne militari, reso ancor più drammatico dalla peste e dalla carestia. Solo dopo il trattato dei Pirenei stipulato tra il re di Francia ed il re di Spagna nel 1659, la Lombardia ebbe un clima politico più sereno e stabile.
Rimanevano pur sempre le ferite di trent’anni di guerra, con un’economia messa alle corde, traboccante di povertà e miseria.
Nella seconda metà del secolo XVII, la monarchia spagnola, con le casse dello Stato rese oramai esauste dalle spese belliche, promosse una massiccia vendita in Lombardia dei beni pubblici, eccezione fatta per alcune principali città o territori di confine, con la possibilità, per le famiglie ricche della Lombardia, di acquistare all’incanto feudi e quindi di accedere, con i titoli nobiliari acquisiti, alle maggiori e più lucrose cariche del Ducato.
In quel periodo di dominio spagnolo la situazione di Varese non era di molto mutata rispetto ai precedenti secoli. Borgo commerciale, aveva risentito in misura minore delle privazioni e delle calamità della guerra. L’egemonia delle famiglie patrizie ed il potere clericale avevano mantenuto inalterato l’equilibrio politico del borgo. Il contado di Varese poteva inoltre vivere sogni tranquilli; blindato da un decreto dell’Imperatore Carlo V emanato del 1621, il borgo con tutto il circondario era stato affrancato in perpetuo da ogni assoggettamento a feudo.
Ma la disastrosa situazione delle finanze del Ducato, imponeva ben altro. L’imperatore Filippo IV succeduto a Carlo V, nell’intento far fronte al più presto al collasso delle finanze pubbliche, chiese al governatore spagnolo di Milano una particolareggiata relazione sui beni demaniali lombardi tra cui quelli di Varese. Per decisione sovrana anche Varese con il suo contado avrebbe subito la sorte di altre zone della Lombardia; sarebbe stata messa all’asta al miglior offerente. Nell’anno 1646, il conte Cesare Visconti di Cislago si propose come acquirente. [1]
Un fatto troppo paradossale per la cittadinanza varesina che si riteneva oramai blindata dal decreto di affrancamento di Carlo V; venne con urgenza convocato il Consiglio dei Reggenti del borgo tra cui spiccava la figura di Gian Pietro de Perabò. Non abbiamo notizie di questo de Perabò e di quanto parte abbia avuto nella soluzione della vertenza; comunque sia, un anno dopo, nel 1647, vennero accettate le argomentazioni addotte dal Consiglio dei Reggenti con successivo riconoscimento da parte del Governo spagnolo nel 1651 di quella completa autonomia di Varese e del suo contado sancita nel 1621 dall’Imperatore Carlo V .[2]
Le famiglie Perabò nel borgo di Varese si erano accresciute; dal rione di San Rocco, l’antica sede residenziale della nobile casata, alcuni gruppi famigliari erano emigrati in altre squadre di Varese, non pochi si erano trasferiti nel contado circostante.
All’inizio del milleseicento era divenuto canonico della Basilica di San Vittore, Enrico Perabò, discendente di IV grado di Orricolo. Nel 1651 il sacerdote, richiamandosi al legato del 1397 di Antoniolo Perabò, dispose che il giorno seguente a quello di Santa Maria Maddalena, il 23 luglio di ogni anno, si donasse ai poveri tanti pani cotti quanti se ne potevano fare con < uno staio di grano e due moggia di mistura >. Un atto di prodigalità personale gradito dalla popolazione, ma altrettanto benvisto dalle autorità del borgo: una liberalità agli indigenti che, more solito, non poteva che dare maggior prestigio alla Casata Perabò. In quella festività, nella cappella della Santa della Basilica di San Vittore, il suono di una grossa campana avrebbe richiamato i poverelli al portone principale della Basilica.[3]
A coloro che presentavano i “segni”, precedentemente distribuiti, l’offerta del pane avveniva < per mano dei più degni della famiglia e alla presenza dell’investito della Cappellania >. Trovava definitiva forma questa iniziativa benefica che da tempo la gente ricordava come “il pane dei Perabò”. [4]
I “segni” con lo stemma dell’arma Perabò-Colombani.
Alquanto singolare di questo periodo è la storia di Teodoro Perabò. Celibe e per di più infermo, Teodoro viveva nella casa paterna essendo ancora indiviso il patrimonio ereditato dal padre. In perenne disaccordo con la cognata e di salute sempre più cagionevole, chiese di essere ospitato presso l’ospedale dei poveri “ …per ritirarsi dal mondo ed acquistare quelle indulgenze che sono state concesse da sommi pontefici a quelli che vanno a morire negli ospedali e beneficano li medesimi luoghi >. [5]
Il desiderio di Teodoro fu esaudito; alla sua morte, lasciò in eredità all’Ospedale tutti i suoi beni con una quota di capitale da destinarsi al Patronato Perabò istituita dal canonico Enrico. Con Teodoro, nominato “Benefattore dell’Ospedale”, [6] i Perabò avevano dimostrato, di tener conto delle esigenze della struttura sanitaria del borgo, sempre più bisognosa di sostanziali aiuti esterni per migliorare la qualità dell’assistenza.
Varese nel secolo XVII. Le Squadre
< …Per “squadra” intendevasi un corpo di abitanti censiti, di capifamiglia “capita domuum”, e di uomini liberi, soggetti a tributi, nati nel borgo, con domicilio civile ed effettivo in una parte di esso; fondamento quindi della sua costituzione, la nascita e il censo….>.
Le “squadre” erano sei:
San Martino, il quartiere settentrionale del borgo colla Castellanza di Giubiano.
Santa Maria, il quartiere centrale superiore colla Castellanza di Cartabbia.
San Giovanni, il quartiere centrale inferiore colla Castellanza di Casbeno.
San Dionigi, il quartiere meridionale colla Castellanza di Bosto.
Biumo superiore e infine Biumo inferiore.
L. Borri – Documenti Varesini – 1891, pp. 11-12.
[1] L. Borri – Documenti Varesini – 1891, p.241.
[2] Il decreto di affrancamento del borgo di Varese, sancito da Carlo V nel 1621, venne accettato da Filippo II, riconosciuto dallo stesso Filippo IV nel 1650 e siglato definitivamente da Carlo II nel 1690. L. Borri – Documenti Varesini – 1981, pp. 239 -241, 250.
[3] L. Borri – Lo Spedale de’ poveri di Varese – 1901, pp.89-90, p.331.
[4] I “segni”, con l’effige dell’arma dei Perabò de Colombani, consistevano in piccoli dischi di rame; in epoca più avanzata furono sostituiti da cartoncini bianchi. Negli anni successivi il canonico con una nuova elargizione mutava l’offerta del grano in equivalente danaro pari a 800 lire imperiali da donarsi all’Ospedale, alla condizione che ogni 23 luglio, giorno di Santa Maddalena, venisse donato in perpetuo ai più poveri delle quattro squadre di Varese tanti pani cotti per l’equivalente di uno staio di grano. Anche altre famiglie Perabò, discendenti da Orrigolo, contribuirono a mantenere l’antica tradizione della casata; Antonio, Gian Pietro e Teodoro, figli del dottor Giuseppe, nell’anno 1621 si riscattarono dal dover dare due staia di grano ogni anno con un congruo pagamento all’Ospedale di 150 lire imperiali. Dall’epoca della istituzione del lascito, i pani furono sempre fatti nelle case dè Perabò fino al 1830; ogni famiglia aveva il proprio forno. Dopo tale data i pani furono apprestrati da un pubblico fornaio.
L. Borri – Lo Spedale dè poveri di Varese – 1901, p. 332.
[5] L. Borri – Lo Spedale dè poveri di Varese – 1901, pp. 371-373.
[6] Teodoro Perabò era nato a Varese il 29 maggio 1678; alla sua morte il 16 marzo 1728, venne sepolto nella tomba avita nella collegiata di San Vittore dinnanzi alla Cappella di Santa Maria Maddalena.
L. Borri – Lo Spedale dè poveri di Varese – 1901, pp. 371-373.